L’incontro con la fragilità umana
25 Set 2013
Per parecchi anni ho svolto servizio a Villa Cristina accanto a degenti di età e provenienze sociali diverse. Attualmente sono in servizio presso un SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura) presso uno dei più grandi ospedali di Torino. Se metto a confronto le due esperienze devo notare che cambia soltanto l’ubicazione, il tempo di permanenza, ma resta inalterato il tessuto umano delle due realtà.
Si tratta quasi sempre di persone che fanno fatica a riconoscere le loro energie, che non hanno fiducia nella loro possibilità di ripresa in modo accettabile e positivo.
Sono persone che spesso non sanno dove stare, dove andare, dove vivere. Alcuni di loro sono il risultato di storie di “ordinaria follia”, purtroppo vissute in famiglia, dove la violenza si è espressa in vari modi, non ultima in ambito sessuale.
Altre, ad un certo punto della loro esistenza, hanno perso l’orientamento spazio – temporale, non sanno più dirigersi da nessuna parte, lasciate andare alla deriva da coloro con cui condividevano fasi di vita.
Molte non sono riuscite a superare gli ostacoli che l’esistenza inevitabilmente ci fa incontrare. Lutti mai elaborati, abbandoni non accettati, depressioni troppo radicate per essere combattute, le hanno portate a cercare, talvolta, nell’alcol o in altre sostanze lesive una scorciatoia per rinunciare alla vita, per non prendersi cura di se stessi.
Dinanzi a questo caleidoscopio di situazioni spesso mi sono posta la domanda : “Qual è il mio ruolo? Che cosa può fare un volontario?
Non sapendo darmi risposte, ho cercato – nei limiti del possibile – di preoccuparmi sempre meno del che cosa fare, ma di impegnarmi nell’essere lì per loro in modo attento, vigile e disponibile ad accogliere i mille volti della fragilità umana.
Questo atteggiamento mentale ed emotivo mi consente di riflettere sulla fragilità che palese o mascherata colora ognuno di noi, sui meccanismi che avrebbero potuto frantumare anche me e in questa proiezione si accresce l‘interesse per loro.
Contando sulla “umanità” (nel senso di ciò che ci fa essere uomini e quindi ricettivi, accoglienti, sensibili..) la nostra relazione con i malati diventa un gioco tra fragilità.
Nelle relazioni umane – a mio parere – si è vincenti se si offre aiuto mostrando la forza della fragilità e non della sicurezza, della disponibilità e non del pregiudizio.
In questa ottica lo stare accanto ai malati psichici è un’ opportunità per fare una esperienza unica che si traduce in accoglienza dell’altro e in offerta di ascolto, opportunità che nella maggior parte dei casi a queste persone è mancata.
“L’ascolto è un dono ………
è saper aspettare le risposte ………
è sapere sollecitare l’altro a parlare.
Non farsi prendere dall’ansia di colmare i silenzi!.
Intuire che c’è un silenzio che è condivisione
e non va dissacrato con parole banali.
Quando il “fare” può essere terapeutico
E’una domanda che spesso ci poniamo e, nel tentativo di dare una risposta , cerchiamo di leggere la malattia come uno dei linguaggi più veritieri attraverso cui la persona rivela se stessa.
L’incontro settimanale con alcune degenti, che nel tempo diventano presenze significative nella nostra relazione di aiuto, ci induce ad uscire dal “senso comune” con cui, quando stiamo bene, noi siamo in grado di vedere il nostro corpo, di gestire lo spazio vitale che ci circonda, di ascoltare il nostro “tempo interno”, inteso come esperienza soggettiva, legata al fluttuare dei sentimenti e soprattutto delle emozioni che colorano la nostra vita.
Dobbiamo abbandonare l’idea che l’immagine fotografica di noi stessi sia veritiera, che lo spazio interpersonale sia misurato in termini di distanza oggettiva, che il tempo sia il risultato dello scandire delle lancette dell’orologio.
L’immagine corporea di colui che soffre di disturbi psichici non è mai colta in modo fedele. Quando si è presi in ostaggio dalla depressione, indipendentemente dalle proprie caratteristiche estetiche, si ha la sensazione di essere brutti, impresentabili , si sente il corpo come inerte, quasi un peso morto che sembra non appartenerci.
Le persone e le cose sono vissute distanti dall’individuo, come se lui fosse condannato a vivere in uno spazio enorme e vuoto. il vuoto esterno diventa un vuoto interno: premessa per una impossibilità di relazione.
Un confronto con gli psichiatri, con cui settimanalmente abbiamo l’opportunità di presenziare alla riunione con tutta l’equipe, ci ha fatto capire quale poteva essere una nostra azione preziosa : aiutare le pazienti a prendersi cura della loro persona, in termini di pulizia, ordine, immagine esterna.
Infatti, invitarle a scendere dal letto, guardarsi allo specchio, pettinarsi, sistemare gli abiti, a volte usati come una “copertina di Linus” è un’impresa, solo talvolta vittoriosa. (Spesso, dopo solleciti inviti, siamo costretti a desistere).
L’avvio è faticoso non per problemi pratici, ma per resistenze psicologiche. “ Non ho voglia! Non mi interessa!” Un’alzata di spalle é un messaggio chiaro. “Per me non cambia nulla, pettinata o no…”Sono stanca, voglio stare a letto”( risposte ricorrenti).
In alcuni casi riusciamo a rompere il muro di apatia. Alcune degenti addirittura ci descrivono a priori come desiderano essere pettinate indicando con precisione come vorrebbero essere! ( Si tratta di una affermazione importante per un malato psichico perché palesa un tentativo di staccarsi dalla sua immagine presente e di proiettarsi in una visione di se stesso nel futuro!).
Dopo ogni intervento, immancabile è la “prova dello specchio” che dovrebbe fissare nei loro occhi e conseguentemente nella loro mente, almeno per qualche secondo, un’immagine positiva del loro viso, anche se non accompagnata da quella del corpo, raramente vissuto nella sua unità.
.Certamente crediamo che la richiesta che ci hanno inoltrato gli psichiatri abbia aperto un varco per incentivare la comunicazione con questa tipologia di sofferenza.
L’immagine del proprio corpo non è soltanto un fatto fisico. E’ un’immagine vitale, legata agli stati d’animo, un modo di stare con se stessi e con gli altri.
In questo senso il volontario può realmente contribuire a modificare il modo in cui il malato vive il proprio corpo, donandogli un po’ di serenità e di gioia, quella gioia che si manifesta nell’essere lì per lui.
E’ dunque” un fare “ sempre più radicato nell’essere (presenti) in gratuità, disponibilità e soprattutto accoglienza e condivisione di un dolore totalizzante perché colpisce la persona nella sua globalità.
Nadia Gandolfo –volontaria SPDC